Quando Gianluca Petrachi lo scorso Luglio tramite conferenza stampa si tuffó nella sua nuova avventura romana, parló apertamente di un anno zero, di un nuovo percorso di crescita da fare a livello tecnico e anche societario. Un concetto poi ribadito anche nel 2020 quando la Roma uscì male dai blocchi di partenza del nuovo anno, incappando in un vortice di risultati negativi che ad oggi le costa la qualificazione alla Champions League. "Quando sono arrivato io c'era un tutti contro tutti" diceva l'ex ds del Torino; a risentirlo oggi un sorriso amaro è una reazione che non può che nascere spontanea.
Sulla sponda giallorossa del Tevere si vive di costanti contraddizioni, di paradossi, come la sospensione di un direttore sportivo il cui operato sul mercato è stato promosso da una buona parte della tifoseria e degli addetti. Il più grande paradosso però è che la rottura,piuttosto annunciata, con Petrachi non scuote nelle fondamenta un ambiente ormai abituato a ripartire sempre da capo e rassegnato a dover fare risultato senza il lusso della minima stabilità. Petrachi probabilmente ha dimostrare di non essere l'uomo giusto per la Roma, uomo schietto e spigoloso, troppo poco incline alla diplomazia per lavorare in una piazza che sembra non vedere l'ora di inghiottire allenatori e dirigenti, a prescindere dalla bontà del lavoro svolto: è però il segreto di Pulcinella che l'origine di tutti i mali sia in una proprietà latitante e disinteressata, talmente distante che quando un dirigente che avrebbe voce in capitolo si presenta negli spogliatoi al fine di svegliare una squadra dormiente, la disabitudine ad una società forte è tale che si grida all'eresia. Nedved non sarà mai sceso negli spogliatoi dello Stadium per stimolare l'orgoglio dei suoi? Tare se ne sarà stato sempre buono buono dietro la sua scrivania senza intervenire nel momento del bisogno delegando tutto all'allenatore?
Morgan De Sanctis sarà il prossimo designato capro espiatorio dopo Monchi e Petrachi (che le loro colpe, anche se diverse, certamente le hanno), a meno che non si accontenti di un ruolo in cui a prendere le decisioni è in realtà lo strapagato e variopinto management romanista, in cui ognuno è convinto di poter prendere le decisioni in autonomia, fino a che da Boston o da Londra non arriva con colpevole ritardo una chiamata.
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