Nel contesto di un Bayern Monaco che (stra)vince la sua sesta Champions League e colleziona il secondo triplete in soli sette anni, il più felice di tutti è sicuramente il match winner della finale, il francese Kingsley Coman. Che ha una storia particolarissima: quella di un predestinato a cui la buona sorte stava per voltare le spalle, ma che ha deciso di non mollare ed è arrivato a decidere una finale europea contro il suo primo amore, il club della sua infanzia e della sua adolescenza.
Coman esordisce tra i professionisti del Paris Saint-Germain giovanissimo, a soli 16 anni, in occasione della trasferta di Sochaux, quando sulla panchina dei parigini siedeva ancora Carlo Ancelotti. Farà presto le valigie dalla Capitale francese, diventando uno dei primi (e tantissimi) talenti provenienti dal vivaio che la nuova proprietà qatariota si è dimostrata incapace di trattenere nonostante un utilizzo precoce in prima squadra per molti di loro. A fiutare l'affare a parametro zero è la Juventus del tandem Marotta-Paratici che lo mette nelle mani di Massimiliano Allegri, fresco di nomina come nuovo allenatore dopo il traumatico addio di Conte. Titolare alla prima di campionato contro il Chievo, riceve durante la stagione a Torino il poco minutaggio che in Italia viene concesso di solito a un talento evidente ma grezzo per via della giovane età e la Vecchia Signora cede alla tentazione di sacrificarlo sull'altare della dea plusvalenza. Il Bayern se lo porta a casa nel 2015 in prestito biennale a 7 milioni più altri 21 per il riscatto poi esercitato, perché Guardiola intravede in lui il potenziale per alternarsi con mostri sacri come Robben e Ribery per poi raccoglierne l'eredità. Cinque anni di graduale crescita in Baviera ma anche continue e frustranti battute d'arresto quando sembra il momento di spiccare definitivamente il volo.
Il motivo sono ovviamente gli infortuni che non gli danno tregua, per dare un'idea le 24 presenze collezionate quest'anno in Bundesliga sono il suo risultato migliore a causa degli stop fisici. La caviglia in particolare lo tormenta, con una serie di problemi in rapida successione ai legamenti che gli fanno perdere il Mondiale del 2018 vinto proprio dai Bleus di Deschamps e alimentano brutti pensieri nella sua testa: una sofferta riabilitazione lo induce a riflettere se sia il caso di dire basta a soli 22 anni, ma grazie alla fiducia incondizionata del Bayern accantonerà questi propositivi negativi.
Un bene che sia andata così, altrimenti non avrebbe potuto scrivere il suo nome nei libri di storia del calcio europeo segnando da ex, lui che ha il cuore che batte sotto la Tour Eiffel da parigino doc, e mettendo in bacheca il diciannovesimo trofeo della sua giovane carriera. Un traguardo niente male per un 24enne tartassato dagli infortuni che ieri si è preso la sua rivincita.
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