Ci fu un periodo nei mitici anni 80 in cui tutti si sentivano un po' Paolo Rossi. Un nome comune e un fisico ordinario, la caduta e la rinascita, l'idea che le grandi imprese fossero alla portata di tutti. Paolo Rossi è stato grande non solo per i tre gol al Brasile e il sigillo in finale alla Germania, ma soprattutto per questo.
Non aveva una muscolatura sviluppata, era mingherlino, nel calcio degli atleti super fisicati di oggi ne sono rimasti rarissimi esemplari, ma era il più agile e soprattutto il più furbo di tutti. Paolo Rossi era il più classico rapinatore d'area, cioè uno che per fiuto e istinto naturale intuisce prima degli altri dove spunterà il pallone da una mischia per metterci un piede, uno stinco, la testa, qualsiasi parte del corpo utile per fare gol ed entrare nei tabellini. E poi quel nome comune, quasi banale, diventato unico e iconico, come un timbro, il suo personale marchio: Pablito. Fu Enzo Bearzot a darglielo in Argentina nel 1978, ancora prima di essere consegnato con questo appellativo alla leggenda come eroe del Mundial '82, a cui arrivò dopo due anni di squalifica per il calcio scommesse.
Un tumore terribile si è portato via l'ex attaccante di Milan, Vicenza e Juventus, che aveva voluto affrontare l'iter terapeutico mantenendo il massimo riserbo sulle sue condizioni di salute, non rinunciando a qualche apparizione televisiva per non rompere il cordone ombelicale che lo legava all'amato mondo del calcio, pur ormai debilitato. Se ne va Paolo Rossi, in questo 2020, che ci costringe a piangere la scomparsa di gente comune, dei nostri cari, di miti le cui gesta non verrano scalfite dallo scorrere del tempo. Perché in fondo Pablito era tutte e tre le cose.
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